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Adorno, Theodor.

Pseudonimo di Theodor Wiesengrund. Filosofo, sociologo, musicologo e compositore tedesco. Di famiglia israelita, dopo aver studiato musica nella città natale, a Vienna fu in seguito allievo di Alban Berg e Schönberg. Studiò anche Sociologia e Filosofia, laureandosi in quest'ultima materia nel 1924 presso l'università di Francoforte, con una tesi su Husserl. Fu particolarmente attivo nell'Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, partecipando alla ricerca Autorität und Familie, raccolta di saggi e studi sulla struttura della famiglia borghese. Nel 1931 conseguì la libera docenza con un lavoro su Kierkegaard, ma nel 1934 fu costretto ad abbandonare la Germania in seguito all'avvento del Nazismo, per ragioni ideologiche e razziali. Si rifugiò dapprima in Inghilterra e in seguito negli Stati Uniti dove, insieme con Max Horkheimer, collaborò presso l'Institute for Social Research di Los Angeles (La personalità autoritaria. Studi sul pregiudizio, 1950). Sempre negli Stati Uniti fu incaricato dall'American Jewish Committee di compiere studi sulle cause del razzismo e sui suoi rapporti con le dittature nazifasciste. Partecipò alla ricerca The Authoritarian Personality, applicando i metodi della sociologia empirica e della psicoanalisi a fenomeni quali razzismo, nazismo, nazionalismo e cercando di individuare le connessioni tra la struttura della personalità individuale e quella socioculturale. L'intensa attività di musicologo gli offrì l'occasione di conoscere Thomas Mann, di cui divenne il "consigliere musicale segreto" per le questioni musicali contenute nel famoso romanzo Doktor Faustus. Tornato in Germania nel 1950, assunse la direzione dell'Istituto per la Ricerca Sociale dell'università di Francoforte. Nello stesso anno pubblicò la Philosophie der neuen Musik (Filosofia della musica moderna), un libro ormai considerato fondamentale per l'interpretazione dei presupposti ideologici della musica del nostro tempo. In esso, nella contrapposizione delle personalità musicali di Stravinskij e di Schönberg, l'autore analizzava il dramma della cultura e della coscienza dell'uomo contemporaneo. In seguito egli pubblicò un saggio intitolato L'invecchiamento della musica moderna, nel quale ammoniva i musicisti d'avanguardia a non trascurare il pericolo dell'eccesso di tecnicismo. Al di fuori del campo musicale, A. ha dato alla filosofia e alla sociologia attuali un apporto rilevante e assai apprezzato dall'élite intellettuale del mondo intero, che non ha tardato a guardare a lui come al filosofo dell'uomo-massa o dell'alienazione. I suoi principali lavori sono: Kierkegaard. Costruzione dell'estetica, 1933; Dialektik der Aufklärung, 1947 (Dialettica dell'Illuminismo, scritto in collaborazione con Horkheimer), nella quale assumono importanza i concetti di alienazione e regressione e nella quale egli conduce una critica totale alla società borghese capitalistica vista come totale contraddittorietà; Minima moralia, 1951; Saggio su Wagner, 1952; Prismi, 1955; Sulla metacritica della gnoseologia, 1956; Note sulla letteratura, 1958-65; Tre studi su Hegel, 1963; Dialettica negativa, 1966; Teoria estetica, pubblicato postumo nel 1970. Al centro del pensiero di A. vi erano i problemi della dialettica, dell'utopia e della critica sociale. Assieme con Horkheimer, Marcuse e Habermas, A. viene considerato uno dei maggiori esponenti della scuola di Francoforte. Di formazione storicistico-marxista, nella maggior parte delle sue opere e nei suoi saggi, sparsi in una quantità di riviste specializzate, egli condusse un'analisi spietata della società borghese contemporanea, padrona e vittima dei suoi strumenti di relazione più potenti e sfruttati, quali il cinema, la radio e la televisione. In questo tipo di società l'individuo per A. si ritrovava sempre più solo e incapace di comunicare veramente con i suoi simili. Tale alienazione e disumanizzazione conducevano a una involgarita e svuotata cultura di massa. Il filosofo tedesco riteneva che la società attuale, dominata dal capitalismo avanzato, fosse il frutto del mito illusorio dell'Illuminismo con la sua fiducia nel progresso e nella tecnica. Esso aveva portato gli uomini a essere subordinati al consumo e li induceva verso una massificazione totale. Con Illuminismo egli intendeva non solo il movimento che aveva caratterizzato l'epoca dei lumi, ma più in generale quel cammino della ragione, partendo già da Senofane, che aveva teso a razionalizzare il mondo, il reale, e a renderlo dominabile e assoggettabile dall'uomo. L'Illuminismo avrebbe perso però l'idea della ragione come ragione oggettiva, ossia come ricerca della verità, e avrebbe innalzato la ragione sperimentale. Si sarebbe persa in tal modo la capacità di critica e analisi delle finalità e degli scopi verso i quali l'umanità si orienta e si sarebbe piuttosto sviluppata la tecnica, la funzionalità: la ragione quindi era diventata solo strumento per perfezionare quelle tecniche che potevano far raggiungere fini che erano però imposti dal sistema. Per ottenere un dominio totale il sistema aveva adottato una serie di strumenti, tra i quali l'industria culturale. Questa era costituita in gran parte dai mass-media che impongono valori e modelli di comportamento, tentando di uniformare gli uomini eliminandone la creatività. Così anche il tempo libero, il divertimento risultavano programmati e non erano più il luogo della genialità e della libertà. L'Illuminismo, quindi, che voleva essere liberazione dai miti illusori ne aveva creati altri. La definizione kantiana dell'Illuminismo come uscita dell'umanità dalla minorità intellettuale e liberazione dall'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro appariva ad A. rovesciata e l'individuo gli sembrava trascinato e dominato dall'intero sistema. Secondo A., Hegel era stato il primo a scardinare il mito illuministico dell'astratto intellettualismo, al quale aveva contrapposto la ragione dialettica. Il suo errore sarebbe stato però quello di idealizzare alla fine questa ragione dialettica, considerandola come sintesi globale. Al mito della ragione A. voleva contrapporre da un lato l'idealismo di Kierkegaard e Nietzsche, dall'altro la prassi di Marx: non accettava però dei primi due la soluzione irrazionalista né il dogmatismo del secondo. Alla dialettica di Hegel egli contrapponeva la dialettica negativa intesa come unione tra critica e utopia. La filosofia diventava quindi rifiuto di ciò che è speranza in ciò che non è ancora. A. voleva evitare che l'uomo si arrendesse alla realtà: il pericolo era infatti quello di aderire ad essa accettandola indiscriminatamente come faceva il neopositivismo con il mito della obbiettività e della scientificità, oppure di alienarsi da lei attraverso il rifugio nel mito, nell'irrazionale, ovvero attraverso una rigida prassi che avrebbe condotto a una alienazione peggiore di quella della massificazione. Il compito della filosofia doveva essere quello di rimanere vigile e di incrementare le antitesi senza credere nelle sintesi. Era un atteggiamento di rifiuto che però poteva condurre alla realizzazione della utopia, ossia alla sintesi tra uomo e società, il che poteva accadere attraverso una prassi che necessita di una teoria per inverarsi e una teoria che per diventare efficace ha bisogno di diventare prassi. Anche il rapporto tra arte e società doveva essere di costante critica. Come il filosofo, l'artista realizzava una utopia, si proiettava nel futuro e allo stesso tempo stimolava la prassi, l'azione. Il rischio era, anche in questo caso, di giungere a delle falsificazioni quali la fuga verso l'irrazionale e il ritorno alle origini, all'ingenuo e al naturalistico, come per esempio in Stravinskij e in Wagner, oppure al velleitarismo rivoluzionario di certe avanguardie formaliste. L'arte doveva essere tensione verso il futuro e continua critica verso il presente: autori, scrittori, musicisti come Kafka, Beckett, Mahler, Schönberg, esorcizzando il presente, lo sollevavano alla coscienza. A. non voleva che le sue considerazioni sull'arte fossero però considerate una vera e propria estetica, e anzi riteneva che fosse impossibile ormai operare con della categorie estetiche astratte e assurdo voler stabilire il significato dell'arte in sé. Egli rifiutava inoltre il concetto dell'arte come luogo di realizzazione del tipico, ossia come momento di fusione tra universale e individuale nel particolare, e invece si proponeva di stabilire quale funzione rivestisse la produzione artistica. Dicendo che l'arte si proponeva la critica della società egli osservava che tale scopo non era però coscientemente determinato dall'artista: in tal caso infatti sarebbe stata una operazione strumentalizzata. L'arte era per lui critica proprio perché non si prefiggeva tale scopo e quindi obbediva a una logica diversa da quella strumentale e tecnologica. A. inoltre riprendeva il concetto kantiano di bello come finalità senza scopo: nell'arte infatti l'immaginazione si sviluppava indipendentemente dalla razionalità; essa quindi era contromovimento rispetto all'apparente logicità della realtà (Francoforte sul Meno 1903 - Visp, Svizzera 1969).